“Palla al Centro”: quando cadono tutte le barriere

Palla al Centro
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Lo sport è in grado di prevenire il disagio sociale e psicofisico. Con il supporto di educatori ed educatrici professionisti, esso può divenire un eccezionale strumento educativo per l’inclusione.

È questa l’anima di “Palla al Centro”, un’iniziativa sostenuta dal Ministro per lo Sport attraverso il Dipartimento dello Sport e in collaborazione con Sport e Salute S.p.A., con ente capofila A.S.D. Union Calcio di Potenza Picena e con il patronato del Comune di Potenza Picena.

I protagonisti e le protagoniste del progetto sono giovani e minori con disabilità e in stato di disagio.

È per loro che ci auguriamo quell’inclusione con la i maiuscola che permette a chiunque di esprimere la ricchezza della propria unicità. Un’inclusione, basata sull’abbattimento delle nostre barriere mentali e culturali riguardo al concetto di disabilità, che consente di scovare punti di forza nella diversità.

Abbiamo intervistato la Dott.ssa Laura Pasquali, educatrice ed insegnante di yoga del progetto “Palla al centro”.

Laura, puoi raccontarci un po’ del progetto “Palla al centro”?

Per il progetto “Palla al centro”, che si è svolto a Potenza Picena, siamo stati contattati io, Emanuele e Filippo. Oltre alla qualifica di educatori ed educatrici, siamo rispettivamente: io istruttrice di yoga, Emanuele istruttore di boxe e Filippo istruttore di calcio.  Ci siamo uniti con l’obiettivo di creare una squadra di ragazzi con disabilità che potessero condividere uno spazio comune: la struttura sportiva di Potenza Picena. Inizialmente sono stati fatti dei percorsi di psicomotricità per scaldare il corpo, poi una partita di calcio, allenamenti di boxe non violenti e nella parte finale lo yoga, che aiuta a scaricare completamente le tensioni fisiche e sviluppare concentrazione.

Con il laboratorio di motricity, abbiamo visto che i ragazzi non avevano nessun preconcetto, ma erano entusiasti di provare tutto e ciò ha permesso loro di acquisire abilità nuove. La cosa più bella che abbiamo visto è stata la solidarietà che hanno mostrato gli uni nei confronti degli altri. Pur avendo delle difficoltà differenti, fisiche e/o comportamentali, hanno formato una squadra che ha permesso a ciascuno di loro di non sentirsi solo, di capire che esistono altre persone nel loro territorio e della stessa età che hanno difficoltà simili. Ciò ha donato loro sicurezza e la consapevolezza di potersi esprimere più liberamente anche all’interno della società. Si pensa che organizzare attività rivolte esclusivamente a ragazzi con disabilità possa essere ghettizzante, invece si è trattato di un modo per far capire ai ragazzi che le difficoltà che hanno non rappresentano un limite, ma una caratteristica che condividono con altri e con cui si può andare avanti. Si è creato un legame nel territorio, una rete di persone che condividendo le loro difficoltà le annullano facendole diventare punti di forza.

Lo sport può essere considerato uno strumento non solo per migliorare la coordinazione e la mobilità delle persone con disabilità, ma soprattutto per poter esprimere se stessi e creare un senso di appartenenza. “Palla al centro” ha rappresentato questo per te?

Sì, assolutamente e il nostro punto di forza è stato l’avere persone che si occupavano della parte motoria, sociale e psicologica. 

Fin da subito il nostro obiettivo è stato quello di creare una rete sia tra i genitori che, mentre aspettavano i figli, condividevano i loro vissuti, sia tra i ragazzi che, pur essendo già dello stesso territorio, hanno iniziato a socializzare e a conoscersi. Questo è avvenuto all’interno di un campo sportivo utilizzato da tutti e tutte e ciò ha permesso un’integrazione ancora maggiore.

Portare avanti un maggior numero di iniziative come questa può essere un modo per sensibilizzare maggiormente la comunità intera a cambiare in positivo, adottando un diverso approccio all’inclusione e all’accessibilità.

Esatto. Infatti, vedendo gli altri ragazzi e le altre ragazze che usufruivano del campo sportivo per poter fare allenamento, ho immaginato per un progetto futuro di portare i ragazzi che abbiamo allenato a giocare con loro: una partita, una condivisione, un mescolarsi nel fare percorsi comuni. Già durante lo svolgimento del progetto alcuni ragazzi, vedendo il nostro gruppo energico e compatto, volevano allenarsi con noi. Il paese è piccolo, la notizia di ciò che stiamo facendo si diffonde velocemente e in questo modo possono partire tanti altri progetti e occasioni d’inclusione.

Hai riscontrato degli aspetti negativi durante questa esperienza?

Mi è dispiaciuto che il progetto sia stato percepito dalle famiglie come un qualcosa che poteva essere più maschile. All’inizio, infatti, era previsto anche l’inserimento di una ragazza che, dopo aver saputo che il gruppo era interamente composto da maschi, ha deciso di non partecipare. Altri aspetti negativi non li ho percepiti: la struttura sportiva di Potenza Picena mette a disposizione numerosa attrezzatura e ci siamo trovati benissimo.

Ritengo che ciò che abbiamo creato costituisca una base da cui partire per fare altro; andando avanti si potrà vedere cosa dev’essere migliorato.

Invece qualcosa di positivo che ti è rimasto impresso nella mente e che vorresti condividerci?

Attraverso i giochi di squadra, vedevo i ragazzi incoraggiarsi l’uno con l’altro, non con uno spirito eccessivamente competitivo come avviene solitamente nello sport, ma con la volontà di dare una mano in modo che tutti possano riuscire.

Era l’obiettivo che ci eravamo proposti ed è stato portato avanti dai ragazzi in maniera del tutto naturale. 

Se domani dovesse entrare una nuova figura all’interno della vostra équipe, quale sarebbe il consiglio che le daresti?

Quando si lavora con ragazzi e ragazze che presentano abilità diverse, dobbiamo essere noi i primi e le prime a pensare che non esistono limiti, in modo da poter trovare delle modalità per poterli superare. Sono i nostri schemi mentali, le nostre paure, il non sapere come intervenire che creano blocchi. 

Si deve saper cogliere le caratteristiche della persona unica che si ha davanti e costruire con lei un rapporto di fiducia. Il nostro è un lavoro che viene fatto con passione e questo è il motore che ci permette di metterci continuamente in gioco e imparare quotidianamente.

Per Fabrizio Acanfora, un blogger autistico, il concetto di inclusione non è corretto in quanto va sempre a definire una maggioranza considerata “normale” che concede l’ingresso a una minoranza percepita diversa. Sarebbe più corretto parlare di convivenza delle differenze. Cosa pensi di questo concetto? Anche con un riferimento allo sport?

Sono d’accordo. È come se esistesse uno sbilanciamento di potere e la parte forte desse il permesso di entrare a quella debole. Dobbiamo cercare di avere dentro di noi meno barriere possibili: l’autismo è un grande contenitore che racchiude persone diversissime tra loro e ognuna deve essere scoperta a sé. 

Ogni persona, a prescindere se siano presenti problematiche o meno, ha delle capacità dentro da tirare fuori e compito dell’educatore o dell’educatrice è aiutarla a fare questo.

Ma non solo, dev’essere la società intera ad adottare tale approccio: l’omologazione, l’essere tutti e tutte uguali impoverisce l’essere umano, mentre vivere la diversità come un arricchimento permette di andare avanti, diventando persone in grado di adattarsi sempre più ad un contesto che sta cambiando.

L’autismo sta riguardando una componente della popolazione sempre più alta e la società deve permettere alle persone con queste caratteristiche di avere delle autonomie, un lavoro, possibilità al pari di tutti e tutte.

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