“Non è niente”: rompere il silenzio per combattere la violenza di genere
“Io ero, sono la vittima, perché?, perché devo essere defraudata della mia dignità? Ho pensato alle altre ragazze e donne violentate e le ho capite più che mai. Le ho abbracciate tutte, perché lo stupro, la violenza, non è solo l’atto in sé, ma quello che arriva dopo. Dover dimostrare che non si voleva, che si è innocenti”
Parole forti quelle di G.L.
Una delle voci di “Non è niente”, libro scritto dalle donne del gruppo di Auto Mutuo Aiuto grazie al laboratorio di scrittura creativa sostenuto dal progetto Empow(her), sostenuto dal Fondo di Beneficenza ed opere di carattere sociale e culturale di Intesa Sanpaolo . Una donna che, dopo un rapporto sessuale non consenziente con il proprio marito, è costretta a subire l’umiliazione elevata all’ennesima potenza di una dottoressa incalzante, indiscreta, indifferente, invasiva. Un climax di domande rivolte senza alcun tatto: è stato violento? l’ha preteso? c’è stato sesso orale? e quello anale? Poste come se lì davanti non vi fosse un essere umano, una donna privata della sua dignità, libertà, individualità. Sembra quasi che il tutto sia difficile da credere: sono necessarie ulteriori prove, esami, trafile infinite per certificare la veridicità delle parole di quella donna. Viene messa sotto processo. L’umiliazione già subita non basta.
Un animale da macello, così, G.L. si sente: l’impotenza, la vulnerabilità, la sofferenza – sensazioni già troppo ben conosciute durante quel rapporto che si credeva essere amore – vengono replicate in quel lettino del pronto soccorso durante la visita ginecologica. Nessun abbraccio trovato, solo dita che puntano contro. La colpa diventa seconda pelle che stringe un involucro fatto già di vergogna e senso di inadeguatezza.
“Sei vittima solo se morta, quello che subisci in vita te lo gestisci da sola”
così Elisa, sorella di Giulia Cecchettin – studentessa ventiduenne uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta – addita i giudici per la sentenza rivolta all’artefice del femminicidio. Ergastolo sì, ma senza riconoscere l’aggravante della crudeltà e dello stalking. Eppure sono state 75 le coltellate subite da Giulia, eppure nella lista dei “contro”, scritta dalla vittima sul suo diario nel luglio del 2023, si parla di mancanza di spazi, di intolleranza verso uscite fatte con le amiche, di messaggi ricevuti fino allo sfinimento per avere la certezza che Giulia fosse realmente andata a dormire. Equiparare la violenza di genere al femminicidio è sintomo di una società che ancora non comprende e riconosce come quest’ultimo non si tratta di un palazzo che, all’improvviso, compare su una strada. La violenza di genere si compone di tutta una serie di mattoncini che, posti l’uno sopra l’altro, portano al gesto finale, al gesto che si condanna.
Quel gesto che ha portato Filippo Turetta ad ottenere l’ergastolo. Quel gesto che, però, non ha permesso a Giulia Cecchettin di ottenere il resto della sua vita.
Le donne non dovrebbero essere morte per essere credute, il femminicidio non dovrebbe essere la prova inconfutabile e necessaria per sostenere la veridicità delle parole della vittima.
Lo stalking include il seguire, l’osservare, il perseguitare, l’invadere la privacy della vittima. Azioni che hanno una cosa in comune: la vita della donna è in essere, non ancora stroncata, in grado di intraprendere un’altra via.
Il mancato riconoscimento di questa aggravante da parte della Corte d’Assise è il segno di una società che ancora non riesce ad agire in prevenzione. Quante donne devono ancora morire prima che ci si convinca del fatto che è sui tasselli che precedono il femminicidio che si deve agire e non sul femminicidio stesso?
Quante G.L. devono ancora sentirsi colme di vergogna, sporche, doppiamente umiliate e denigrate, prima di comprendere che è proprio questo insieme di sensazioni – dettate da una società giudicante non ancora capace di comprensione – che spinge alla solitudine, al silenzio e, dunque, all’aumento della possibilità del verificarsi del femminicidio?
Bisogna rompere le barriere del silenzio.
“Non è niente” nasce per questo: per condividere esperienze e far sì che altre donne, che vivono la stessa situazione, trovino il sostegno necessario per uscire da una gabbia che non si sono scelte. Di cui non hanno la minima colpa. E da cui possono sempre trovare la via d’uscita.
Ma le donne che subiscono violenza non sono le uniche destinatarie del messaggio: lo è la società tutta. Una società che ancora marginalizza, stigmatizza e colpevolizza colei che subisce e che è direttamente responsabile, dunque, nella perpetuazione dei femminicidi.
Un libro che vuole far comprendere come “Non è niente” i contro scritti sulla lista del diario di Giulia Cecchettin. “Non è niente” tutto quello che accade prima del verificarsi del femminicidio.
Perché quella dottoressa, così sospettosa, insistente, diffidente, è il riflesso in miniatura di una società che ancora – disconoscendo l’importanza della prevenzione – non ce l’ha fatta.
“Nessuno mi darà indietro Giulia. Non sono né più sollevato, né più triste rispetto a ieri. È chiaro che è stata fatta giustizia, ma dovremmo fare di più come essere umani. Abbiamo perso tutti come società”.
Gino Cecchettin, padre di Giulia
E continueremo a perdere finché la prevenzione e la sensibilizzazione non verranno utilizzate come gli strumenti fondamentali atti a combattere la violenza di genere.
A portare a quella trasformazione culturale in grado di modificare l’ideologia alla base dei numerosi casi di femminicidio che ancora continuano a ripetersi nel nostro paese.
Non vogliamo più il silenzio di donne morte.
Vogliamo donne vive e una società che dia sostegno e potenza alla loro voce reclamante libertà.