Alzheimer, capacità ancora conservate e caregiver consapevoli

Alzheimer
Condividi su facebook
Facebook
Condividi su twitter
Twitter
Condividi su linkedin
LinkedIn
Condividi su whatsapp
WhatsApp
Condividi su telegram
Telegram

La causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei Paesi sviluppati: l’Alzheimer.

Le demenze, di cui appunto l’Alzheimer è la forma più comune e diffusa, rappresentano un tema di grande risonanza, sia sul piano sanitario, sia su quello sociale, non soltanto per la loro diffusione nella popolazione, a causa dell’aumento dell’aspettativa di vita (un dato allarmante riportato in un articolo de Il Sole 24 Ore: “L’Italia certifica oggi almeno 1,5 milioni di persone con demenza, destinate a superare i 3 milioni nel 2050”), ma anche per la condizione di non autosufficienza frequentemente legata alla malattia e il conseguente e significativo impatto che queste malattie hanno sulla qualità della vita, non solo delle pazienti e dei pazienti, ma anche delle loro famiglie.

È in questo contesto che gioca un ruolo cruciale la figura del caregiver – che è spesso un familiare – e il suo percorso emotivo e assistenziale, insieme alla persona con l’Alzheimer. Un percorso fatto di sfide continue, in cui si accolgono e si gestiscono la fragilità e le necessità quotidiane della persona, perché il supporto che si offre non è mai solo pratico e terapeutico, ma anche emotivo.

Quello del caregiver è un ruolo che implica un carico fisico e psicologico importante e che merita attenzione, anche perché da esso dipende non solo la qualità della sua vita, ma anche quella della persona di cui si prende cura. Ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Francesca Meccarelli, psicologa clinica e specializzanda in psicoterapia, che di recente ha anche tenuto un corso, presso il nostro Centro Orizzonte, proprio destinato ai caregiver. Con lei abbiamo colto l’occasione per fare un punto sulla terapia non farmacologica, che può intervenire positivamente sia sulla sfera cognitiva, sia sul versante dei disturbi comportamentali e di perdita della memoria.

Francesca, dell’Alzheimer, patologia neurodegenerativa a decorso cronico e progressivo, ad oggi non si conosce la cura. A livello psicologico, oltre il trattamento farmacologico, come e in che modalità è possibile intervenire per cercare di rallentare l’avanzamento della malattia?

Uno dei fattori che aiuta è il mantenimento, il più a lungo possibile, delle autonomie della persona. Ciò significa accompagnarla nelle sue perdite progressive, starle vicino senza sostituirsi totalmente.

L’obiettivo del mantenimento delle autonomie è far sì che la persona si senta felice e coinvolta nelle attività della vita quotidiana come apparecchiare, preparare un pasto, fare la doccia, andare a trovare qualcuno.

Quando parliamo di Alzheimer stiamo parlando di una patologia sempre più diffusa dato l’aumento

dell’aspettativa di vita, con grossi impatti nell’ambito familiare, sia psicologici che assistenziali (oltre

l’80% delle persone con l’Alzheimer. vive nel proprio domicilio ed è assistito dai familiari, detti

caregiver). Ed è ai caregiver che si è rivolto principalmente il corso che hai tenuto. Puoi parlarci di

come era strutturato?

Il corso, strutturato in tre incontri a partire dal “Manuale del caregiver” a cura della geriatra Luisa Bartorelli, ha trattato le principali tematiche che riguardano il prendersi cura di una persona con diagnosi di demenza, con un’attenzione particolare alle varie fasi della malattia e alla sensibilizzazione dei caregiver rispetto alla consapevolezza delle autonomie delle persone che assistono.

Lo scopo era quello di fornire ai caregiver che si occupano della demenza, o in generale di persone anziane, degli strumenti utili per gestire le situazioni critiche che si vengono a creare nel corso della patologia o nell’invecchiamento.

Si partiva dal presupposto che il caregiver dovrebbe essere “saggio”, cioè dotato di strumenti da mettere in pratica nel momento del bisogno, facendo sempre dei tentativi, perché ogni persona ha una sintomatologia diversa, una malattia che si esprime in modi differenti e non per tutte la soluzione adatta è la stessa. Sta al caregiver cercare di fare quanti più tentativi per vedere quali di questi vanno a buon fine.

Inoltre l’Alzheimer è una malattia fluttuante, ciò significa che un giorno una persona sembra stare meglio, un giorno sembra essere peggiorata, un giorno è più visibile una delle sue autonomie, un giorno invece sembra che le stesse siano scomparse. Compito del caregiver è dunque quello di accompagnare la persona e procedere per tentativi finalizzati alla sua autonomia, per mantenere quanto più a lungo possibile le abilità dell’anziano nelle cose che sa fare e in quelle in cui riesce.

L’ Alzheimer è una condizione in cui gradualmente si perde la concezione astratta del tempo, del concetto di “ieri” e di “domani” andando sempre più a vivere il presente.

L’obiettivo su cui investire i propri sforzi da caregiver, quindi, non è tanto che la persona possa recuperare quello che è andato perduto, perché purtroppo con la demenza non è possibile; gli strumenti utili a disposizione del caregiver sono quelli che fanno sì che la persona con diagnosi di demenza si senta coinvolta e felice nel qui e ora, in occupazioni che la fanno sentire efficace, sicura e padrona della situazione nel momento presente.

È necessario lavorare sulle abilità residue, sull’autonomia che una persona ancora ha nello svolgere le azioni nella vita quotidiana, accompagnandola attraverso tutte le tappe che servono per compiere un determinato compito.

In un’intervista, la Prof.ssa Luisa Bartorelli, Medico Geriatra, e curatrice del libro “Manuale del caregiver” afferma, “[…] il pensiero, la memoria, l’attenzione, l’orientamento, l’astrazione, lo stesso linguaggio e altro via via vengono danneggiati nel decorso di malattia. Tuttavia, se c’è una diagnosi precoce, un’offerta di assistenza personalizzata, un caregiver consapevole, è possibile valorizzare le capacità ancora conservate della persona, con risultati sorprendenti.” Che cosa intende la professoressa con l’espressione “capacità ancora conservate” e cosa significa, secondo questa sua visione, essere un caregiver consapevole?

Le capacità conservate sono quelle abilità e autonomie che la persona ancora ha nell’iniziare e portare a termine un’attività, come ad esempio fare il letto, apparecchiare, lavarsi i denti, fare la spesa. All’inizio della malattia la persona è in grado di completare tutte queste azioni in autonomia; tuttavia nel corso del tempo e in modo progressivo, avrà sempre più bisogno di qualcuno che la accompagni nello svolgimento, qualcuno che le ricordi e le consigli le tappe e l’ordine in cui eseguirle.

Il presupposto è sempre quello di non sostituirsi alla persona nelle azioni che è in grado di svolgere in autonomia e di capire quindi il confine tra fornire l’aiuto necessario e svolgere l’azione al posto dell’anziano: il caregiver consapevole comprende quando la persona ha bisogno di un supporto e si inserisce nello svolgimento delle attività al momento giusto, consigliando come proseguire nello svolgimento.

Non è facile stare vicino ad una persona che non riesce a svolgere un compito senza sostituirsi, soprattutto quando si vuole evitare di farla sentire incapace o frustrata. Bisogna pensare però, che in queste situazioni si sta fornendo all’anziano la possibilità di un tempo nel quale potrebbe stare elaborando una strategia per affrontare la situazione. Il saggio caregiver quindi si colloca “sulla soglia” che sta tra la persona, il mondo esterno e la sua capacità di gestire gli stimoli.

In questo lavoro è di fondamentale importanza conoscere la persona, la sua storia, quello che ha fatto nella vita, le cose belle e le cose brutte che le sono successe. Tutte le informazioni possono essere di aiuto nel lavoro del caregiver, soprattutto quando la patologia progredisce e si perdono le autonomie come quella dell’igiene personale. Quando è necessario entrare nello spazio intimo dell’anziano per svolgere azioni come quella della doccia, conoscere le informazioni che attivano emozioni positive aiuta il caregiver a fornire un argomento di conversazione e di intrattenimento che permette di svolgere tutte quelle mansioni durante le quali si potrebbero attivare anche comportamenti aggressivi.

Per il caregiver, dunque, avere una strategia significa conoscere il più possibile la persona e utilizzare questa conoscenza per trovare il modo migliore di procedere nel corso della giornata, eseguendo le attività necessarie, anche quando l’autonomia è persa.

Con la malattia tante abilità andranno perdute, ma la memoria emotiva rimarrà forte, sia in termini di emozioni positive, sia di emozioni negative. Parlare di un evento che sappiamo essere positivo per la persona può essere fonte di distrazione, di attivazione e stimolazione, anche in quelle occasioni in cui tenderà a concentrarsi su racconti di eventi tristi e dolorosi.

La diagnosi di una malattia così complessa rappresenta un’esperienza traumatica per la famiglia.,

perciò grande risalto dovrebbero avere i vissuti emotivi e i bisogni dei familiari. Come è possibile

evitare un isolamento del nucleo familiare di fronte alla patologia?

L’arrivo della diagnosi segna l’inizio di un cammino lungo il quale si incontrano da un lato dolore e sofferenza derivanti dalla perdita progressiva delle autonomie, dall’altro la consapevolezza di un tempo prezioso da trascorrere con la persona: il tempo dell’accompagnamento e della tenerezza, un periodo nel quale è possibile conoscere a fondo il proprio familiare, custodendo e riconsegnando i ricordi perduti. Il lavoro del caregiver, infatti, è anche quello di conservare e restituire continuamente alla persona ciò che non riesce più a rievocare alla memoria.

Di fronte alla patologia, può accadere che il caregiver si senta solo, chiuso nella bolla dell’accudimento. Per evitare l’isolamento una valida opportunità presente in alcuni territori è quella del Caffè Alzheimer, uno spazio di condivisione pensato sia per i familiari, sia per le persone con diagnosi. L’obiettivo con cui viene strutturato è quello di dare al caregiver l’occasione per svolgere attività ricreative e occupazionali con l’anziano e, unitamente, per formarsi e confrontarsi con esperti della patologia e altri familiari. In ogni caso il beneficio maggiore per il caregiver è quello di sentirsi parte di un gruppo che condivide lo stesso carico di accudimento e la stessa esperienza di vita.

Non bisogna dimenticare che la socializzazione è un fattore protettivo sia per il familiare sia per l’anziano, in quanto previene i disturbi dell’umore e contrasta la progressione di ogni forma di demenza. Per il familiare, il gruppo dei “pari” che vive la sua stessa condizione, anche se in fasi differenti della patologia, aumenta la consapevolezza di quello che potrebbe incontrare in futuro e la conoscenza di ciò che sta vivendo nel presente.

La persona con demenza può abbracciare una fase di depressione e non avere voglia di svolgere attività. Come è possibile coniugare quest’aspetto con l’importante necessità che ha di fare, di mantenersi attiva?

Non è raro che la consapevolezza di avere problemi legati alla memoria o il timore di avere una forma di demenza abbiano ripercussioni sul tono dell’umore: all’insorgere dei primi sintomi la persona può, infatti, apparire triste, apatica, poco coinvolta nelle attività della vita quotidiana o in quelle che solitamente sono le sue occupazioni preferite. La depressione è una delle patologie che ha in comune con la demenza molti sintomi e che può essere allo stesso tempo segnale d’inizio o conseguenza dell’inizio della demenza; è per questo che prima che il medico formuli una diagnosi precisa è necessario effettuare una serie di indagini che vanno progressivamente ad escludere, oltre alla depressione, anche tutte le patologie che potrebbero generare il quadro presentato dalla persona.

Occorre precisare però che anche in presenza di una diagnosi di demenza, la persona ha bisogno di sentirsi efficiente ed efficace nelle attività che svolge. Per questo, quando il caregiver si trova di fronte a situazioni di rinuncia o perdita di interesse rispetto ad un compito o un’azione, deve sempre chiedersi se la persona ha scelto di non eseguirlo perché effettivamente non vuole, oppure se si tratta di un atteggiamento di rinuncia legato al fatto che la persona si è resa conto di non riuscire ad essere autonoma o viceversa se l’attività che il caregiver ha proposto è troppo semplice.

L’ex professore di psicologia Richard Taylor ha ricevuto la diagnosi di Alzheimer all’età di 58 anni, e

da quella diagnosi ha scritto ogni giorno la sua esperienza della malattia. In un’intervista ha detto

“Ho iniziato a scrivere perché ero pietrificato all’idea di svegliarmi una mattina e che un sipario

sarebbe caduto a separarmi dal resto del mondo. […] Ogni giorno cercherò sempre di essere

Richard. Ogni giorno farò del mio meglio per gioire e trovare significato e scopo nella mia vita.”

Sipario, gioire, significato e scopo nella vita: sono tutte parole molto forti e belle. Potresti

condividerci la tua opinione su questa preziosa testimonianza?

Sicuramente si tratta di una testimonianza forte.

Rispetto al sipario, tuttavia, bisogna pensare a qualcosa di diverso da quello che abbiamo nell’immaginario collettivo, ovvero il sipario del teatro che crea una separazione, una chiusura che segna la fine dello spettacolo. Il sipario della demenza è più simile a una tenda a pacchetti, non continua. Al momento della diagnosi non è possibile sapere quali pacchetti scenderanno per primi e in quale ordine seguiranno gli altri. Certamente essere consapevoli di una patologia degenerativa significa sapere che il sipario, prima o poi, si completerà ma, come afferma anche il professore, nonostante vi siano dei pacchetti mancanti, possiamo gioire, trovare uno scopo nella vita, stare vicino facendo rifiorire i pacchetti mancanti.

Per i caregiver è confortante vedere la persona con diagnosi svolgere attività in cui riesce, in cui si sente coinvolta, efficace e padrona della situazione. Nonostante la patologia, quindi, è possibile trovare la gioia e lo scopo della vita per continuare ad essere felici insieme all’anziano.

Uno dei temi che genera molta sofferenza nei caregiver è quello di non essere riconosciuti nel ruolo di mariti, mogli, figli, nipoti. Spesso in queste circostanze il familiare fa esperienza di un grande vuoto interiore che potrebbe generare in lui la convinzione che tutto sia andato perduto. Tuttavia, nonostante la diagnosi, bisogna tenere presente che le esperienze emotive rimangono e con esse anche la sensazione di avere un fortissimo e profondissimo legame con la persona con cui si sta a contatto: anche se non si conosce più il significato delle parole e dei ruoli, rimane una percezione di collegamento che per il caregiver è fonte di grande conforto.

Qual è la domanda che ti pongono maggiormente i caregiver? O che ti hanno posto maggiormente

durante il corso?

Uno dei temi che emerge maggiormente è quello relativo ai momenti di cambiamento nei quali il caregiver diventa consapevole che è avvenuto il passaggio da una perdita momentanea a una perdita definitiva di una certa autonomia. Il movimento verso una fase successiva e più grave della patologia è un tempo delicato per il caregiver: da un lato perché si tratta di qualcosa che può essere visto solamente a posteriori, quando la perdita è divenuta stabile; dall’altro perché spesso si attivano nel caregiver false speranze di recupero dell’autonomia, in quanto accettare la perdita reale genererebbe troppa sofferenza.

Un altro dei temi frequenti è la gestione dei comportamenti problematici, come le domande ripetitive, la fuga, l’agitazione, l’aggressività verbale o fisica che, rimanendo nella variabilità della persona e delle patologie, non sempre si manifestano.

A questo riguardo, oltre al ruolo che svolge la farmacoterapia nell’accompagnamento del lavoro di accudimento, il caregiver può avere molti strumenti a disposizione, che derivano dalla conoscenza della persona: grazie alla storia dell’anziano, nelle situazioni complesse il caregiver ha la possibilità di attivare delle strategie, come la distrazione su tematiche per lui interessanti, che sono in grado di prevenire o disinnescare l’attivazione di comportamenti problematici.

La conoscenza della persona è favorita dal lavoro in team: ogni operatore, infatti, vede l’anziano in differenti momenti della giornata, ne ha una percezione diversa e ne conosce alcune sfaccettature. La supervisione, l’intervisione e il confronto con figure diverse, la condivisione di ciò che si conosce dell’anziano, sono tutte strategie che permettono di aiutare al meglio la persona con demenza andando a costruire interventi personalizzati.

La tendenza degli ultimi decenni è stata quella di assistere a una marginalizzazione delle anziane e degli anziani, che spesso restano esclusi da una vita moderna sempre più frenetica, con conseguenze negative sul loro benessere psico-fisico. In una società, la nostra, spesso caratterizzata dell’ageismo, si avrebbe il bisogno di cambiare punto di vista di fronte alla demenza. Che ruolo hanno le relazioni, il contatto e la vicinanza per una persona, anziana o no, che vive l’Alzheimer?

La socializzazione è una forma di prevenzione, un fattore protettivo rispetto allo sviluppo della patologia e, nei casi delle demenze, aiuta a rallentarne il decorso.

Tuttavia anche nei contesti di socializzazione pensati per persone con diagnosi di demenza bisogna sempre tenere conto di chi è la persona e di quali sono le sue abitudini e preferenze: inserirla in un contesto di socializzazione, nel caso in cui si tratti di una persona riservata e che ha vissuto serenamente in modo solitario, sarebbe una forzatura non rispettosa delle sue inclinazioni, del modo di vivere che conosce e della persona che è nel momento presente.

Qual è l’aspetto del tuo lavoro più difficile?

Uno degli aspetti più complessi è accompagnare i familiari nel percorso di cambiamento, nella progressione della malattia e nella presa di consapevolezza di essere giunti ad una nuova fase della patologia; insieme a questo, la sensibilizzazione sulle tecniche per affrontare e gestire i comportamenti problematici come l’aggressività; infine, l’elaborazione del lutto in vita: con l’arrivo della diagnosi spesso il caregiver si sente perduto, impotente, frustrato, percepisce una profondissima assenza nonostante debba ancora prendersi cura del proprio familiare.

E qual è quello che ami di più?

Amo accogliere e custodire le storie delle persone che incontro, conoscere le strategie che hanno utilizzato per affrontare le situazioni complesse della vita, conservare i racconti felici per poterli restituire quando ne hanno bisogno, parlare di un qualcosa che attiva emozioni positive.

La seconda cosa che amo di più è la tenerezza: stare vicino e condividere il tempo con chi riesce a parlare anche solo con gli occhi e con le mani. Spesso gli anziani vivono la convinzione di non essere degni di una carezza, si sentono brutti e non meritevoli di abbracci o di contatto fisico, hanno paura di essere disgustosi agli occhi e alle mani degli altri, dei giovani soprattutto. È bello quindi vedere lo stupore nei loro occhi quando ricevono un abbraccio, una mano sulla spalla, una carezza, uno sguardo di profondo affetto.

Condividi su facebook
Facebook
Condividi su twitter
Twitter
Condividi su linkedin
LinkedIn
Condividi su whatsapp
WhatsApp
Condividi su telegram
Telegram

Scopri tutte le novità riguardanti il mondo Faro