Quarantacinque anni. Questi sono gli anni che sono passati dalla legge n. 517 che di fatto aboliva le classi cosiddette “speciali”, univa le aule e gettava le basi dell’inclusione. È iniziato tutto dalla scuola, ma di strada ne abbiamo ancora molta da fare.
Parlare di disabilità non basta, non è più sufficiente: per accrescere davvero la consapevolezza e poter finalmente parlare di inclusione con la i maiuscola, occorre paradossalmente fare un passo indietro e andare a ripulire i termini che, molto spesso, si rivelano sbagliati. Culturalmente siamo abituati a servirci di parole che descrivono la disabilità come qualcosa di estraneo e lontano, oppure con espressioni vuote e superficiali.
Ma le parole non sono mai solo parole.
“Coloro che liquidano le questioni linguistiche come collaterali rientrano spesso in categorie umane che la lingua non l’hanno mai subìta, che hanno sempre avuto modo di scegliere le parole con cui definirsi, rappresentarsi; che non solo hanno sempre avuto modo di far sentire la propria voce, ma anche di usare una lingua costruita a loro immagine e somiglianza.”
Vera Gheno, introduzione al libro È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo).
Un po’ come ricorda l’attrice Paola Cortellesi nel monologo, scritto dal semiologo Stefano Bartezzaghi, divenuto celebre nella battaglia contro la violenza sulle donne, le parole hanno un ruolo decisivo sulla costruzione della realtà. Alle parole corrisponde un pensiero, molto spesso cucito ad hoc su luoghi comuni, pregiudizi e preconcetti che nemmeno sappiamo di avere.
Il più delle volte anche le buone intenzioni vestite di pietismo rischiano di dare un’immagine sbagliata della disabilità. Sul web, ad esempio, si leggono sempre più spesso di mamme che non vogliono più sentirsi chiamare “eroine” o “madri di bambini speciali”, perché nel momento in cui etichettiamo qualcosa, lo accantoniamo da un lato, lo trattiamo come “altro”, qualcosa di cui dobbiamo occuparci quando e come si può. Invece la disabilità non è e non dev’essere quel mobiletto scomodo a casa, che all’occorrenza va spostato dove serve e che, magicamente, ad ogni qualunque “Giornata Mondiale per” acquisisce valore, diventa fulcro di iniziative ecc.
La prima barriera da abbattere è proprio quella mentale, il primo grande e difficile passo per comprendere e avere piena consapevolezza su come fare inclusione.
Un’inclusione che sia prima di tutto umana ed espressa nei termini più rispettosi, affinché possa tradursi in azioni concrete e reali supporti alle famiglie e alla comunità tutta.
Forse un giorno riusciremo anche a fare un passo in più. Fabrizio Acanfora, scrittore, blogger, autistico e attivista italiano, conosciuto per la sua attività di divulgazione scientifica riguardante proprio lo spettro autistico, ci anticipa quel passo in questo modo, ribandendo la sua:
“perplessità sulla validità e la reale equità del concetto di inclusione, in quanto espressione di uno squilibrio di potere tra una maggioranza che può decidere se e come includere e le minoranze che si trovano a subire questo processo spesso in modo passivo. Al suo posto ho suggerito di cominciare a pensare in termini di “convivenza delle differenze”, idea che suggerisce una parità tra le parti.”