Li chiamano Hikikomori: ragazze e ragazzi che scelgono di autoescludersi dalla società, confinarsi in casa propria, evitare qualsiasi contatto con persone e mondo esterno, condurre esclusivamente comunicazioni sulle quali sono in grado di esercitare un controllo completo.
Un isolamento sociale continuativo di almeno sei mesi che conduce, gradualmente, all’esclusione da tutte quelle attività che richiedono un’interazione attiva – le attività extrascolastiche, la scuola, il lavoro – fino a giungere all’interruzione del dialogo anche con le stesse persone che vivono in casa propria.
Il termine, derivante dai verbi giapponesi hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi), viene tradotto letteralmente in italiano con “stare in disparte” o “staccarsi”. Appunto, uno stacco completo tra il proprio io e il resto del mondo dove il ritiro in se stesse e in se stessi diviene l’unico luogo che si è in grado di accettare per vivere.
Un fenomeno che trova una delle sue principali cause nel rigido sistema educativo giapponese. Un sistema che stimola ai massimi livelli la competizione tra studentesse e studenti premia uno studio intensivo che porta a lasciare indietro qualsiasi altra forma di hobby e socializzazione, si privatizza sempre più e prevede esami di ammissione sempre più difficili da sostenere.
Shinken jigoku, così viene chiamato tale sistema scolastico. “Inferno degli esami” è la sua traduzione italiana, possiamo facilmente immaginare il perché.
Genitori che spendono sempre più per l’educazione delle proprie figlie e dei propri figli. Un’educazione che si fa sempre più rigida, selettiva, soffocante. Che sprona e promette successo, mentre induce a rinunciare a tutto il resto: sport, uscite serali, un caffè in compagnia di un’amica o un amico. Un insieme di ingredienti che concorrono a produrre un mix costante di ansie, paura dell’insuccesso, aspettative troppo alte che non si è in grado di soddisfare. L’unica via di fuga che sembra prospettarsi davanti diviene l’isolamento.
“Tutti hanno un sogno nel cassetto e per far sì che questo si avveri basta solo trovarne la chiave”.
Noemi Fiorentino
L’Hikikomori decide di girare la chiave nella fessura per chiudere il cassetto e i suoi sogni, ma anche tutto quello che con sé portava il rincorrerli.
Presente dalla seconda metà degli anni ottanta in Giappone, tale fenomeno si diffonde a partire dagli anni duemila anche in Europa. Così, la dott.ssa Carla Ricci, antropologa, ha dichiarato in un’intervista del 2015:
“In Italia, il fenomeno Hikikomori esiste ed è in crescita, per alcune condizioni che lo rendono simile al Giappone: […] le condizioni sociali che favoriscono uno stato di incertezza, insicurezza e disorientamento, che, per chi è emotivamente più esposto, possono rappresentare una spinta decisiva verso il ritiro”.
Incertezza, insicurezza, disorientamento: sono queste le parole che, spesso, sentiamo associate al periodo dell’adolescenza. Un’adolescenza che, differentemente dalle generazioni passate, trova sempre più difficile credere nella possibilità di realizzare un futuro stabile, sia a livello economico sia a livello personale.
Sulla base delle stime fatte da psicologhe e psicologi, il dott. Marco Crepaldi, fondatore di “Hikikomori Italia” (un’associazione che nasce come supporto al problema dell’isolamento sociale), afferma che in Italia gli Hikikomori siano circa 100 mila.
Un fenomeno, dunque, che spesso viene associato al Giappone ma che è in crescita costante anche nel nostro Paese.
Cosa poter fare, allora, per evitare che sempre più ragazze e ragazzi decidano volontariamente di chiudersi in se stesse e se stessi, al buio delle proprie camere, passando la totalità della loro esistenza all’insegna della solitudine?
Come afferma Marco Crepaldi, innanzitutto, non bisogna considerare tale condizione come una malattia:
“L’Hikikomori non va curato, ma supportato”.
Invece di mostrare cecità di fronte a fragilità e difficoltà di ragazze e ragazzi, di additarli come “privi di voglia”, “scansafatiche”, la società tutta dovrebbe prendere consapevolezza di come le condizioni attorno a loro siano cambiate rispetto ai decenni precedenti, smettendo di essere occhio giudicante e diventare guida in grado di orientare e fornire strumenti utili per costruire il proprio futuro. In quella che il sociologo Zygmunt Bauman chiama la “società liquida”, ossia priva di quelle certezze e punti di riferimento che erano in grado di orientare nel passato e permettevano di aspirare ad un controllo sul proprio futuro, alle giovani e ai giovani serve certezza e un punto di riferimento.
È fondamentale una rete formata da scuole, no profit, imprese che scommetta sul futuro giovanile tramite la messa in atto di azioni finalizzate ad aumentare l’autostima, la partecipazione, la consapevolezza di sé. Una rete che crei opportunità di interazione sociale, permetta all’Hikikomori di ritrovare un senso e uno scopo nella propria vita attraverso un’educazione che individui e valorizzi competenze, abilità, talenti.
Un ascolto attivo e un “mettersi nei panni di” per avere con loro un confronto alla pari costituiscono le fondamenta per la costituzione di un rapporto di fiducia che permette a queste e questi giovani di esprimere propri dubbi, ansie, paure. Di non chiudersi in se stesse e in se stessi. Isolarsi.
Un’azione olistica che venga giocata su più fronti e che faccia comprendere di non essere le sole e i soli a vivere determinate emozioni e situazioni.
Bisogna orientare.
Ascoltare.
Accompagnare.