C.U.A.V: consapevolezza, responsabilità e prevenzione

C.U.A.V
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1135 le donne uccise in Italia dal 2012 ad oggi.

Parlare di femminicidio è sempre più urgente, considerando i numeri in costante crescita.

L’uccisione di una donna da parte di un uomo, però, risulta solo il punto culminante di un fenomeno molto più ampio e che si manifesta in molteplici forme non sempre riconoscibili: la violenza di genere. Una violenza radicata in molti dei comportamenti abituali che vengono adottati.

Al C.U.A.V, il Centro per gli uomini che hanno agito (o temono di agire) violenza, si effettuano percorsi finalizzati allo sviluppo di una maggiore consapevolezza di sé, alla presa di responsabilità della violenza agita, alla destrutturazione degli stereotipi sulla mascolinità e alla riflessione sulla problematicità insita in alcuni comportamenti quotidiani.

Un lavoro finalizzato a scardinare l’immagine del “mostro” contrapposto a quella dell’uomo bravo, facendo riflettere sulla non normalità di alcune abitudini e pensieri che la maggior parte di noi ha.

Abbiamo intervistato l’educatore professionale socio pedagogico, il Dottor. Simone Capitani, operatore del C.U.A.V, per far comprendere l’importanza di un servizio di cui purtroppo – data l’urgenza del problema – si sente ancora parlare poco nel nostro Paese.

Simone, una delle principali strategie d’intervento per sconfiggere ogni forma di violenza di genere è la prevenzione. Perché il C.U.A.V è importante in tal senso?

La prevenzione, rispetto al C.U.A.V, è importantissima. La problematica di genere ha radici profonde a livello culturale e ne siamo condizionati. In questo senso fare prevenzione significa leggere la cultura maschilista in cui siamo immersi, una cultura che per millenni ha visto l’uomo in una posizione egemone. Rendersi conto di ciò è già un passo importante perché mette in discussione tutta una serie di comportamenti che si considerano normali. Ad esempio, abbiamo chiesto agli uomini dei gruppi del C.U.A.V chi si occupasse, quando erano piccoli, delle pulizie in casa. Tutti hanno risposto: la mamma. Abbiamo cercato di far capire che sarebbe necessaria e giusta una divisione dei compiti, ma alcuni di loro sono ancora legati alla visione che vede la donna geneticamente più portata dell’uomo ai lavori di casa mentre l’uomo al lavoro fuori dalle mura domestiche.

La scusante biologica della debolezza della donna contrapposta alla forza dell’uomo viene utilizzata in molti casi per giustificare gli episodi di violenza. Come reagiscono gli uomini di cui ti occupi quando capiscono che, in realtà, la biologia non c’entra nulla?

A condurre i gruppi siamo, tendenzialmente: io, la Dott.ssa Valentina Menzella, psicologa e il Dottor. Marco Pascarella, psicoterapeuta. Gli uomini di cui ci occupiamo vedono la mia collega come il riassunto del mondo femminile; invece, lei rimanda delle cose di sé che non rispondono all’idea che loro hanno di donna. Questo crea, in certi, uno spiazzamento. Altri questo scatto non lo fanno, ma fortunatamente da quest’anno il percorso ha previsto più ore – 60 in almeno un anno – e permette di fare più attività laboratoriali ed esperienziali.

Come ti senti ad essere un uomo in mezzo ad altri che hanno agito o presumono di agire violenza?

Il loro percorso di crescita è anche il mio: sono io stesso che, durante le discussioni, mi trovo a ragionare su alcune cose. Perciò mi fanno da specchio: più volte mi sono ritrovato a dire loro che è sbagliato creare una linea netta di demarcazione tra gli uomini che commettono atti violenti e no, perché gli schemi che vengono introiettati in quanto maschi sono gli stessi.

Il femminicidio è un fenomeno gravissimo, ma la violenza di genere si compone e si basa su tutta un’altra serie di comportamenti quotidiani che, vedendoli ogni giorno, consideriamo normali. Quello che cerchiamo di fare al C.U.A.V è discutere e far riflettere su questi comportamenti in modo da riuscire a leggere tanti elementi quotidiani sotto un’ottica diversa.

Da un punto di vista operativo, in cosa consiste il percorso che ciascun uomo fa al C.U.A.V?

Ci sono uomini che vengono volontariamente e non su richiesta legale?

I primi incontri vengono svolti a livello individuale e sono propedeutici all’entrata in gruppo. Dopo di ciò esistono due modalità di svolgimento: percorsi fatti interamente in gruppo o a prevalenza individuale con una parte in gruppo. Al termine del percorso, poi, viene fatto un colloquio di restituzione.

Una delle tematiche principali che trattiamo è la gestione delle emozioni. Non esiste l’uomo che non piange mai e non ha paura di niente. Ogni emozione serve, compresa la rabbia: l’importante è imparare a gestirla. Quello che cerchiamo di fare è far capire che, nella vita di coppia, il litigio è un conflitto sano, mentre la violenza implica prevaricazione e, poi, forniamo strumenti da mettere in pratica per poter gestire la rabbia. Altra cosa che proviamo a chiarire loro è di non portare all’interno del percorso tutte le ingiustizie a livello legale che sentono di aver subito, poiché il lavoro che facciamo noi riguarda un ambito diverso.

Nessuno è obbligato a venire da noi, ma la maggior parte arriva su indicazione del tribunale. C’è anche, però, chi viene spontaneamente. Ad esempio l’ultimo che è uscito ha svolto un percorso bellissimo: ha dato tanto al gruppo e sta consigliando ai suoi stessi amici di venire da noi per potersi rendere conto di quanto alcuni comportamenti che diamo per scontati non sono affatto normali.

È importante ricordare che gli uomini che intraprendono il percorso non sono uomini per natura violenti, sono uomini che hanno agito violenza e l’agito può essere cambiato.

Al C.U.A.V cerchiamo di offrire un “vocabolario” per permettere loro di leggere emozioni e stereotipi.

Ci sono caratteristiche che accomunano questi uomini?

La vittimizzazione: molti si sentono vittime del problema o negano di aver agito un comportamento che possa essere chiamato tale. Ad esempio, nei casi di violenza assistita, viene usata la giustificazione della non presenza del bambino o della bambina durante l’atto violento senza considerare che anche il clima presente a casa può avere delle ricadute sul minore e sulla minore.

Esistono anche molte rigidità provenienti da fattori culturali. Una di queste è la convinzione del dover dare, in ogni caso, il cognome del padre in quanto si è uomini.

Cerchiamo di abbattere e far ragionare su queste rigidità facendo vedere pubblicità, video, spezzoni di film: la violenza si trova ovunque e, finché qualcuno non si interessa ad alcune tematiche, assorbe gli stereotipi in maniera passiva e li mette in pratica.

Il femminicidio rappresenta solo la punta di un iceberg costituito da messaggi veicolati dai media, modo di utilizzare il linguaggio, scelta dei giocattoli che vengono regalati ai propri figli e alle proprie figlie, divisione del lavoro tra uomini e donne.

Ovvio che questi fattori, presi singolarmente, non possono essere considerati violenza, ma tutti insieme contribuiscono ad alimentarla.

Credi nel cambiamento? Al C.U.A.V stiamo gettando le basi affinché, in futuro, possa essere possibile?

Al C.U.A.V stiamo gettando le basi, ma il cambiamento non si raggiunge facilmente in quanto è il risultato di un lavoro lungo e collettivo, di cui il nostro intervento costituisce solo una minima parte. Non possiamo, ad esempio, non tenere da conto il linguaggio dei media che è potentissimo e influenza tutti e tutte noi.

Qual è l’aspetto che più ti piace del tuo lavoro e quale consiglio daresti a chi si trovasse a farlo per la prima volta?

L’aspetto che più mi piace del mio lavoro, oltre il fatto che si tratta di un servizio poco diffuso in Italia, è l’andare a scardinare l’immagine del mostro che viene veicolata in televisione e che fa percepire il problema come un qualcosa lontano da tutti noi. Quel “mostro”, prima di fare quel gesto, era uguale a molti uomini.

Il consiglio che darei a chi si trovasse per la prima volta a svolgere questo tipo di lavoro è quello di mettere da parte il proprio giudizio in modo da riuscire ad andare oltre, in profondità del problema.

Servizi Antiviolenza

 

 

 

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